martedì 25 giugno 2013

Il 143 bis del codice civile e il DOPPIO COGNOME dei figli in Italia

Ma è proprio obbligatorio il cognome del marito?

di Iole Natoli
(quotidiano L’ORA, Palermo, 11 Marzo 1980)


PREMESSA
Come già scritto in occasione del precedente articolo (La soppressione della donna nella struttura familiare 
à) ho resistito per diverso tempo all’ipotesi di mettere on line i miei vecchi articoli a stampa sul Cognome materno, perché il trascorrere degli anni me ne ha reso evidenti alcuni limiti, anche linguistici quali le frequenti ripetizioni non necessarie di uno stesso termine, cosa che oggi mi procura allergie.
Tuttavia, non solo essi attestano dell’evoluzione di un’idea e delle sue possibili realizzazioni pratiche, ma informano sul diffondersi dell’idea del DOPPIO COGNOME tra il pubblico, sia pure con una lentezza esasperante, come accade per qualsiasi iniziativa da cui discenda una modifica del costume sociale.
Anche qui commenterò in alcune note i punti che, in positivo o in negativo, riterrò necessario evidenziare.


Con il nuovo diritto di famiglia la posizione giuridica della donna ha registrato, in Italia, un primo positivo mutamento. L’art. 143 bis del codice civile riconosce alla donna coniugata il diritto di conservare il proprio cognome,  che è quello di nascita,  assegnando al cognome maritale,  che con il contratto matrimoniale  le viene imposto, una funzione puramente aggiuntiva.                                                                                                                              (prosegui >>>)

Pure questa modifica, che sembrerebbe derivare dal principio fondamentale di uguaglianza tra uomo e donna, conserva   in realtà inalterata la propria matrice spregiudicativa [1]
Se infatti con la formazione di un nucleo familiare la donna aggiunge al suo cognome quello  del  marito,  questi continua  invece  a  non  assimilare  in  
alcun modo al proprio il cognome della moglie, quasi che il diritto paritario della donna venga arcaicamente limitato dal riconoscimento di un’innata mancanza, che impone solo a lei, quale necessaria «compensazione», l’aggiunzione fallica del cognome maritale.
Al di là di questo fondato sospetto di natura freudiana, si può però rintracciare un più evidente fattore causale di una «regola» tanto «irregolare» sotto il profilo costituzionale, se soltanto si sposta l’attenzione della donna alla prole e al modo in cui per consuetudine viene gestita, nel nostro paese, la trasmissione del cognome nell’ambito della struttura familiare. I figli, infatti, salvo rare eccezioni, portano soltanto il cognome del padre, che è «ovviamente» quello del nonno paterno; e su per quella via sino a rintracciare il primo fondatore di una «dinastia» che fonda la precaria certezza della propria continuità sulla ferrea regola della fedeltà femminile, imposta alla donna proprio perché sentita come l’unica garanzia possibile per una non spuria discendenza. Dalla consuetudine attuale[2] discende quindi che il padre, paradossalmente, non ha alcun bisogno della donna per far comprendere ad altri che i suoi figli sono suoi; ha il beneficio di un cognome che ad essi lo accomuna. La donna, che i figli li fa e che ne è incontestabile autrice[3] in ogni caso, non ha invece con essi, paradossalmente, in comune il cognome. Perché il filo conduttore appaia all’esterno, si deve per lei necessariamente passare dalla linea obbligata del cognome coniugale.
Si dirà, come sempre in casi di ingiustizie, che questa disparità in fondo è involontaria; che nessun altro tipo di soluzione è possibile; che se i figli avessero i cognomi di entrambi i genitori e non di uno soltanto (e perché poi proprio del padre?) si andrebbe incontro con i nuovi matrimoni ad una struttura moltiplicativa tale da far impazzire qualsiasi onesto impiegato dell’ufficio anagrafe; dimenticando (e stranamente) che la logica matematica consente di superare felicemente il problema, tramite un semplificante sistema di trasmissione   ereditaria per sesso[4]. Abolendo l’usanza attuale decisamente anticostituzionale, è infatti sufficiente stabilire alcune regole fondamentali per far quadrare il circolo (vizioso) della trasmissione del cognome alla prole[5], senza ledere la parità di diritti di ciascuno dei coniugi che l’articolo 143 aveva tentato d’introdurre. Questi i punti qualificanti di un progetto di riforma che può apportare un serio contributo alla civilizzazione del costume sociale nel nostro paese:
Nucleo familiare - Il nucleo familiare formato con matrimonio è connotato dai cognomi ereditari di entrambi i coniugi. La precedenza tra i cognomi ai fini dell’iscrizione anagrafica va attribuita per ordine alfabetico.
Cognome dei coniugi - Con il matrimonio il marito aggiunge al proprio il cognome ereditario della moglie e la moglie aggiunge al proprio il cognome ereditario del marito. Il cognome non   ereditario va riportato su ogni documento anagrafico di ciascuno dei coniugi, preceduto dalla dizione “nato” ovvero “nata”[6].
Trasmissione del cognome ai figli - Il nome di ciascun figlio è formato dal prenome e dai cognomi ereditari dei genitori. I cognomi ereditari vengono trasmessi per sesso. Il cognome ereditario precede sempre il cognome del genitore dell’altro sesso.
Opzione - La persona che per motivazioni soggettive, preferisce trasmettere ai propri discendenti l’altro dei suoi cognomi d’origine, deve presentare apposita istanza d’opzione all’ufficio distato civile, insieme alla richiesta di matrimonio. La richiesta d’opzione non va motivata[7].
All’interno della rigida trasmissione dei cognomi per sesso la formula dell’opzione, senza ledere nel suo aspetto formale la pari dignità dei coniugi, sposta sui figli il diritto della scelta, tenuto conto che lei identificazioni soggettive non sempre coincidono col dato biologico del sesso.
Ampia libertà di scelta dunque, ma per le figlie e i figli[8], e non predominio totalitario dei «padri» patriarchi. Che la civiltà maschilista e patriarcale, che tanto danno ha recato e reca al civile strutturarsi di un rapporto di coppia, possa infine scomparire dal codice civile e dai vissuti familiari quotidiani, se è vero che la famiglia deve essere in grado di porre le basi, nelle nuove generazioni, di una sana affettività socializzata.

Palermo 11 Marzo 1980 - Milano, 26 Giugno 2013
© Iole Natoli
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Note odierne all'articolo del 1980
[1] Refuso di stampa, sta per “sperequativa”.
[2] La Corte costituzionale ha chiarito in occasione di uno dei tanti ricorsi per i quali à stata chiamata a decidere, che non si tratta di una “consuetudine” ma di un complesso di norme correlate, modificabili solo con una differente normativa.
[3] Il termine “autrice” mi appare oggi poco felice. Tuttavia l’intera questione dei vocaboli relativi alla filiazione e alla gravidanza andrebbero sottoposti a revisione. Se “autrice” pecca di eccesso di autonomia della donna nella generazione del figlio, anche nei confronti del figlio stesso, “fecondazione” pecca di eccesso contrario, spostando il peso della generazione sul solo intervento maschile e portando in sé una nota d’ineluttabile passività femminile, quasi al limite di fantasie di stupro. Più appropriato sostituire “fecondazione” con “coniugazione genetica”, definizione che ho utilizzata in un mio articolo precedente (La soppressione della donna nella struttura familiare >>>).
[4] Vanno qui rilevate alcune cose. In primo luogo, il sesso c’entra poco con la necessità di una semplificazione matematica, tant’è che nel Progetto successivo e nella Proposta di legge attuale c’è sempre la semplificazione ma non l’incidenza del sesso. Inoltre il concetto di “trasmissione ereditaria” è fuori luogo, come ho già precisato commentando il mio primo articolo sul tema (La soppressione della donna nella struttura familiare >>>, nota 10) e come preciserò meglio più avanti.
[5] Non si può far quadrare un circolo, vizioso o virtuoso che sia, se solo questo circolo non c’è. Al tempo dei miei primi articoli, ritenevo - come peraltro molti ancora oggi - che vi fosse un diritto di trasmissione del cognome ai figli esercitato dal padre. M’ingannavo, come altri ancora oggi s’ingannano e come ho scoperto in seguito alla sentenza sul mio caso, la prima sull’argomento in Italia >>>. Il cognome viene “acquistato” dal figlio e non c’è alcun genitore che “trasmette”. Ovviamente non ripeterò questa nota ogni volta che nell’articolo ricorre il termine “trasmissione”, ma questo punto deve risultare ben chiaro, perché condiziona l’intero impianto di tutte le proposte di legge e ha condizionato il risultato di tutti i ricorsi giudiziari, presentati successivamente al mio, in Italia.
[6] Come ho già scritto nella nota 16 al mio primo articolo sul tema, “esistono Stati nei quali uno dei coniugi, indifferentemente, può decidere di assumere il cognome dell’altro, cosicché questo diventa automaticamente il cognome dei figli”. Io però qui non mi stavo ispirando ad altre legislazioni, al contrario quei “nato” e “nata” testimoniano di un permanere nella mia mente della legislazione addirittura antecedente alla riforma del 1975, quando le donne coniugate perdevano il cognome originario per assumere quello del marito, seguito nei documenti da quell’annotazione: “nata ecc.”. Nel voler modificare il 143-bis operavo senza accorgermene sia un rovesciamento di tale articolo sia un recupero di quanto avevo vissuto io stessa col cognome da coniugata. Oltretutto, la trovata di eliminare un cognome al fine di acquistarne uno del coniuge crea una complicazione indescrivibile con i divorzi e i nuovi matrimoni. Nella realtà “l’idea del matrimonio unico”, direi addirittura l’idea del matrimonio, “non era ancora uscita dalla mia mente, come non è ancora uscita - a distanza di ben 34 anni - dalla mente di parlamentari, autrici di proposte di legge che ritornano (-->) sia pure in relazione solo al cognome dei figli e non anche a quello dei coniugi”.
[7] L’ ”opzione” segna già un passo avanti rispetto alle indicazioni del 1979 (>>>). Tuttavia questa prima e ridotta libertà dei figli viene esercitata solo all’atto di un matrimonio e dunque in vista della generazione di altri figli. Non ero ancora pervenuta allora all’idea di una completa autonomia della persona, al di fuori di ogni eventuale scelta generativa, che sarà invece al centro della mia recente Proposta di legge (>>>), dove il comma 5 dell’art. 3 rende il figlio soggetto unico della propria identità personale, diversamente da quanto è accaduto sino a oggi in qualsiasi altro progetto nostrano e in misura più ampia della stessa recente riforma spagnola, con cui si è istituito il diritto del figlio all’inversione dei suoi due cognomi (Ley 20/2011, de 21 de julio, del Registro Civil), cosa da me ipotizzata già prima di allora.
[8] Lo sviluppo di questa e di altre riflessioni, porterà poi alla modifica esposta nell’articolo “Evoluzione sociale, modello familiare e formazione dell’identità: ipotesi per un mutamento” (Il Confronto meridionale, Maggio 1988), già on line su un altro blog (>>>), soluzione che precede la mia proposta di quest’anno. Prima di quell’articolo, però, mi sarei occupata del cognome materno con altri miei due scritti, di prossimo inserimento: “Ai figli il cognome della donna” (L'Ora, 30 dicembre 1980) e “Perché al figlio il cognome del padre” (L'Ora, 25 gennaio 1982).


Vai anche agli altri articoli a stampa
Precedenti:
_ Doppio cognome per i figli in Italia  / La soppressione della donna nella struttura familiare. Primo mio scritto sull'argomento, apparso sulla rivista “Il Foglio d’Arte”, Palermo, Giugno 1979 (-->);

Successivi:
_ Il 143 bis del codice civile e il DOPPIO COGNOME dei figli in Italia / “Ma è proprio obbligatorio il cognome del marito?”, quotidiano “L’ORA”, Palermo, 11 Marzo 1980 (-->);
_ “Ai Figli il Cognome della Donna  / Come si comportano negli altri Paesi”, quotidiano “L’ORA”, Palermo, 30 Dicembre 1980 (-->);
_ "Perché al figlio il cognome del padre?" (-->)
_ "Evoluzione sociale, modello familiare e formazione dell’identità: ipotesi per un mutamento”, mensile “Il Confronto meridionale”, Palermo, Maggio 1988 (-->).

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